L'eruzione del 1669
Inizio eruzione: 11 marzo 1669
Fine eruzione: 15 luglio 1669
Durata: 122 giorni
Quota bocche: 800 mt- 850 mt
Volume lava emessa: 607.000.000 m³
Dopo l’attività del 1651 che aveva riversato sul versante ovest fiumi di lava distruggendo parte dell’abitato di Bronte, il vulcano si placa fino al 1669 quando a partire dal 25 febbraio e maggiormente dall’8 marzo, violenti terremoti causano il crollo di numerose case nei pressi di Nicolosi.
Nel pomeriggio dell’11 marzo 1669 si assiste all'apertura di una frattura che nasce in prossimità della zona sommitale ed arriva fino a quota 1800 m. Una lunghezza complessiva di ben 9 km che vanno da Monte Frumento Supino a Piano San Leo. La parte inferiore della frattura si propaga per altri 6 km fino a quota 800 m e una bocca eruttiva si apre sotto Monte Nocilla a nord dell’attuale centro di Nicolosi. Contemporaneamente si attivano una serie di bocche eruttive in contrada Fusara. Nella notte tra l’11 e il 12 marzo 1669, Nicolosi viene tormentata da altri violenti terremoti, così forti da fare squarciare la terra che inghiotte alcune abitazioni. Nello stesso punto si apre la grande bocca dei
Monti Rossi, e sin da subito la lava comincia a sgorgare copiosa. A questo punto le bocche attive sono sette. La veloce colata attraversa contrada Scalonazzo e raggiunge un monte risalente all’eruzione del 693 a.C, il Il 13 marzo 1669 il flusso, che comincia a digitarsi, a percorso già 4 km oltre Nicolosi, il braccio orientale punta su Mascalucia che raggiunge e distrugge, il 15 marzo la lava fa lo stesso con San Giovanni Galermo. Questo braccio si divide in due lingue che però si arrestano durante la stessa giornata. L’altro braccio invece, più orientale continua con grande consistenza e già il 13 marzo incenerisce campagne ed abitazioni di San Pietro e Camporotondo. Proprio in corrispondenza di Camporotondo il fronte lavico si divide in due grossi bracci di cui quello più ad ovest raggiunge Valcorrente, alle pendici del vulcano, tra il 17 e il 18 marzo. La colata che invece si riversa più ad est di Camporotondo si divide in molti piccoli bracci che si allargano, uno solo di questi si dimostra abbastanza alimentato da poter procedere proprio in direzione di Catania, gli altri si fermano ben presto. Il flusso principale adesso comincia a preoccupare i catanesi anche perchè cresce sempre più di portata: il 25 marzo il fronte più avanzato si trova già a ben 9 km dal suo punto di emissione ed il 29 marzo raggiunge il paese di Mistebianco, prima lo circonda, poi lo invade e lo cancella, a quel punto la morfologia del terreno costringe la lava a deviare ancora di più verso Catania che viene raggiunta il 12 aprile 1669 dopo aver percorso 12 km, seppellendo la pianura e un laghetto chiamato Gurna di Nicito, abbattendo i resti di un vecchio acquedotto e alcuni monumenti prima di abbattersi sulla prima delle tre mura della città. Alcuni abitanti cercano di ostacolare il cammino del “mostro” costruendo piccole barriere di pietrame a secco che regolarmente il “mostro” investe e supera.
Il 23 aprile la lava raggiunge il mare e tutti sperano ma per poco, poiché il campo lavico si alza e si allarga prendendo un'area di almeno 3 km². Seppellisce interamente tutti e 36 i canali della marina che erano l’orgoglio di Catania e investe le ville patrizie. Il 30 aprile 1669, si hanno i danni maggiori: la lava raggiunge le mura di Tindaro, percorre in poche ore il grande giardino dei Benedettini e aggredisce le chiese di S.Maria Maggiore, San Geronimo, San Nicolò, S.Barnabà e S.Crispino. Subito dopo prende il corso e cancella le case del centro facendo sentire Catania perduta. A questo punto il Senato di Messina decide di mandare degli uomini in soccorso. In quello stesso tempo una cinquantina di pedaresi compiono un'opera ricordata come uno tra i primi tentativi di deviazione lavica da parte dell’uomo. I 50 uomini ricoperti da pelli bagnate di animali ed armati solo di mazze, pale e picconi tentano di aggredire il lato orientale della colata per cercare di fare uscire la massa fusa contenuta all’interno del canale verso una zona diversa. Dopo ore di durissimo lavoro riescono ad aprire una breccia e la lava comincia a defluire. A questo punto però gli abitanti di Paternò si vedono avvicinare un fiume di fuoco che Madre Natura stava mandando in tutt’altra zona del vulcano. Così 500 paternesi cominciano a marciare velocemente verso il gruppo di pedaresi. Così i lavori proseguono e Catania torna a respirare. I catanesi tornano in città ma non trovano altro che sciare fumanti e quel che rimane delle loro case.
Il 5 giugno 1669 in quota echeggiano violentissime esplosioni ed all’improvviso il Cratere Centrale sprofonda, nello stesso tempo a valle ritorna a scorrere con grande veemenza il fiume di fuoco che attacca le alte mura del Castello Ursino. Il 9 giugno la lava per fortuna non distrugge il castello ancora esistente, ma ne invade solo le fosse attigue senza danneggiare l’importante monumento storico. L’eruzione si conclude il 15 luglio 1669. Il volume di lave emesse supera i 900 milioni di metri cubi mentre la superficie ricoperta è stimata in circa 35 Km² e le abitazioni distrutte sono circa 600 solo a Catania.
Questa eruzione chiude un ciclo particolarmente intenso ed è seguita da un periodo di moderata ma costante attività.